Ricorre in tutti i settori, in tutti i contesti della vita sociale e degli organismi del potere, del mondo della informazione e del mondo della scienza, del mondo economico e del mondo politico la convinzione, la credenza e l’idea che tutto cambierà dopo la tragica bufera della pandemia, tutto non sarà come prima e tutto porterà a cercare/trovare soluzioni migliori per la vita di ciascuno e di tutti. Sul come sarà il dopo, le visioni del mondo sono differenti, a volte molto semplificate, a volte molto complesse, ma in tutte ricorre una trasversale tendenza a credere in un cambiamento generalmente positivo, anche se non facile e immediato e non privo di conflitti e di contrasti. Si tende a credere insomma che da una esperienza di paura, di angosce e di drammi sapremo costruire un mondo migliore. Alcuni segnali anche se variegati e informi sono già evidenti da quello che si legge in merito a idee e progetti che si stanno abbozzando per le vie di comunicazione, le strutture e infrastrutture nelle grandi città, per gli ambienti di lavoro e gli scambi, per gli eventi culturali e il turismo. E’ naturale questo approccio alla speranza. Non comprensibile è invece la diffusa dimenticanza riguardo aspetti fondamentali per sperare in un miglioramento: siamo certi che sapremo affrontare con maggiore tempestività e competenza una successiva aggressione della pandemia? Saremo in grado di progettare cambiamenti di sistemi di governo della vita sociale, delle istituzioni scolastiche e di modelli e ambienti della produzione e degli scambi economica in grado di ridurre le disuguaglianze singole e di classi sociali, saremo in grado di percepire con la dovuta sensibilità e attenzione l’aggravamento e l’appesantimento delle distanze sociali dopo questa fase così drammatica? Su questi aspetti c’è ancora troppo silenzio e bassissimo livello di sensibilità e attenzione. Eppure proprio questo aspetto graverà pesantemente sui sogni e sulle speranze vaganti e fumosi di una vita migliore
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